Insegnare pianoforte è un'arte, esattamente come suonarlo. Contrariamente a ciò che pensano i non addetti ai lavori, e come hanno già avuto modo di verificare sulla loro pelle gli allievi di strumento,
un buon pianista non è necessariamente un buon didatta, analogamente a come un buon giocatore di calcio non è necessariamente un buon allenatore.
Questo principalmente perché nell'insegnamento, non solo del pianoforte, entrano in gioco un'altra serie di fattori che spesso giocano un ruolo ancora più importante rispetto alle abilità alla tastiera dell'insegnante.
Il rapporto tra allievo e maestro è infatti molto stretto, molto sinergico, e funziona solo se scatta nei due l'alchimia che consente ad entrambi di esprimere il loro massimo potenziale.
E' un sottile gioco di relazione, di stimoli, di curiosità, di capacità di ascolto, di osservazione, che si frappone tra le abilità pianistiche del maestro e il desiderio di apprendere dell'allievo.
Per questo motivo l'insegnamento è una disciplina che va studiata e sviluppata esattamente come le abilità manuali allo strumento: un buon docente è capace di fare autocritica, di migliorarsi continuamente attraverso l'esperienza e una formazione specifica,
che abbracci sia gli aspetti psicologici legati all'interazione con l'allievo, che gli aspetti tecnici, musicali in senso stretto e fisiologici.
Il discorso è anche più complesso parlando di adolescenti e soprattutto di bambini, con i quali la comunicazione è certamente differente, e va sviluppata continuamente man mano che le fasi della crescita modificano l'allievo.
A questo proposito sono assai interessanti gli approfondimenti legati alla teoria di E.Gordon. Essa parte dall'assunto che il bambino alla nascita, ed entro i primi mesi di vita, ha un potenziale di apprendimento musicale come non avrà più in futuro.
Secondo la visione di Gordon, denominata Music Learning Theory e per la quale rimando alle ottime spiegazioni dell'AIGAM e del sito Edumus, gli insegnamenti dei fondamenti della musica (ritmo, percezione tonale, ...) vengono acquisiti "nativamente" come parte integrante della propria "mappa" cerebrale solo nei primissimi mesi di vita, un po' come avviene per le lingue.
Passato questo periodo il bambino potrà certamente apprendere la musica, anche con ottimi risultati, ma il suo cervello compirà sempre uno "sforzo" di tipo "compensativo", rendendo in una certa misura più difficile l'acquisizione di nuove nozioni musicali.
Seguendo le teorie di Gordon si sono sviluppati vari metodi musicali per l'insegnamento musicale ai bambini, alcuni dei quali, come Music Together disponibili da alcuni anni anche in Italia e che consiglio per instradare alla musica nella prima infanzia.
In assoluto, il metodo di insegnamento perfetto del pianoforte (e della musica) non esiste. Possiamo affermare genericamente che sia quello che sviluppa al meglio il potenziale dell'allievo, e consente contemporaneamente all'insegnante di affinare la propria arte di docente.
Vi sono scuole di pensiero differenti, approcci tecnici differenti, percorsi formativi che possono dare più o meno risalto ad alcuni aspetti rispetto ad altri, ma in ultima analisi l'ampio margine di soggettività dettato dal fatto che ogni allievo è (ed anche ogni insegnante) un'individualità unica, non consente di dichiarare un metodo "assoluto".
Vi sono certamente però delle linee guida che si possono seguire, approcci che funzionano meglio di altri: personalmente credo fermamente nell'affinamento multi-disciplinare che abbracci gli aspetti meccanici, teorici, psico-fisiologici e relazionali.
Mentre risulta abbastanza scontato parlare di tecnica pianistica, di metodi di lettura a prima vista, e di analisi della partitura, lo è meno parlare di aspetti psico-fisiologici.
Essi abbracciano e si avvalgono delle tecniche di sviluppo del potenziale umano e della consapevolezza corporea che l'Europa con ritardo sta pian piano mutuando, ed applicando anche in campo musicale, dagli Stati Uniti, come il Feldenkrais o il metodo Alexander, che ho avuto la fortuna di conoscere nel mio percorso di studi.
Oggi non è più raro vedere artisti che praticano discipline come la bio-energetica, o quelle di derivazione orientale come Tai-Chi.
Tutte queste esperienze contribuiscono in maniera importante alla modellazione dell'equilibrio individuale, che si riflette naturalmente sia in una maggiore efficacia nel contesto musicale, ma anche più in generale nella maggior "centratura" dell'individuo, come autorevoli insegnanti l'hanno denominata.
Ho citato anche l'aspetto relazionale tra i campi di approfondimento della didattica musicale. La musica è in prima istanza un linguaggio di comunicazione, e come tale una forma di espressione che ci mette in contatto con gli altri.
A che serve suonare se non si comunica con altri? Suonare significa mettersi in comunicazione con il mondo esterno, ma questo passaggio viene spesso vissuto con difficoltà dagli allievi perché non vengono adeguatamente preparati dal punto di vista psicologico ad aprire il proprio mondo interiore (non solo musicale) agli ascoltatori.
Suonare in pubblico è un po' come parlare, si comunica, ci si mette in gioco, ed è un'attività che naturalmente le persone possono svolgere senza paura, se preparati con i giusti strumenti.
L'abitudine a comunicare con gli altri attraverso la musica va affinata, perché ore ed ore passate allo strumento servono a poco se poi non si ha modo di comunicare le proprie scoperte e le proprie emozioni agli altri.
Il percorso didattico che propongo ai miei allievi è in linea con questa multi-disciplinarità e tocca tutti gli aspetti sopra descritti; mira a fonderli in nel modo più personale ed adatto all'allievo, per massimizzarne il potenziale.